dalle Terre di Canossa alla Pietra Bismantova

La parola Emilia evoca la Pianura Padana, che accende nella nostra immaginazione la “bassa” del Po, tanto raccontata da letteratura e cinema - primo fra tutti il Mondo Piccolo del Guareschi, con Don Camillo e lo zio Peppone. 

Ma nella realtà l’Emilia è in gran parte colline, valli, tornanti e passi dai nomi evocativi. A partire dalle Valli Piacentine all’Appennino Tosco-emiliano, che da occidente a oriente significa: Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena e Bologna, e poi si entra in Romagna. Gli itinerari motociclistici davvero non mancano. 


Non ho ancora raccontato di un percorso magico fra le province di Parma e quella di Reggio, territori separati dal fiume Enza, un tragitto che evoca storia, leggenda, fantasia, e che avrebbe fatto la sua figura a girarci lo Hobbit. 
Un percorso che, svolto in un senso o nel suo contrario, attraversa le Terre di Canossa, la Pietra di Bismantova, il passo della Scalucchia, passo del Lagastrello, e poi da Pontremoli la scelta è vostra: al mare in Versilia o in Liguria, oppure o ancora il passo della Cisa, il passo del Brattello... 

Non è un tragitto breve, per cui lo apro dal casello dell’Autostrada del Sole (la A1) chiamato “Terre di Canossa”, che è il casello di cui nel medioevo si sarebbe senz’altro servita Matilde di Canossa se avesse posseduto un’automobile. 

Si narra che Matilde (prima ed unica Regina d’Italia, ma anche la donna più potente del medioevo), dai lunghi capelli rossi, fosse fisicamente di assai bella presenza. Nel suo melange di spiritualità e carnalità fu certamente una figlia del medioevo ma nella sua forza ed intraprendenza anche un prototipo di donna moderna ante litteram. La sua vita è avvincente e sorprendente e vale la pena di essere raccontata.
Matilde nacque poco dopo lo scoccare dell’anno mille (per la precisione il 1046) e dunque visse nel basso medioevo a cavallo del 1100. Tempi bui. Fu figlia di Bonifacio di Canossa, un sanguigno reggiano simpaticamente chiamato “Il Tiranno”, e di una forte nobildonna di stirpe reale, Beatrice di Lotaringia, cugina dell’Imperatore Enrico III. 
I Canossa governavano una vasta zona dell’Impero, che sotto Matilde sarebbe arrivata a comprendere Toscana, Emilia Romagna e Lombardia. Capitale era il Castello di Canossa, che per l’appunto si trova nell’aspro Appennino Reggiano. Matilde crebbe nello sfarzo di corte ed era in grado di parlare bene il francese e il tedesco. Quando però compì sei anni, nel corso di una battuta di caccia, il padre “il Tiranno” fu raggiunto alla gola da una freccia, la cui punta per maggior efficacia era stata preventivamente avvelenata. Negli anni successivi anche entrambi i fratelli di Matilde ebbero a far ritorno in cielo aiutati, pare, dal veleno.
La madre dovette cercare protezione in un secondo matrimonio con un rozzo alemanno di nome Goffredo il Barbuto, che per sovrammercato volle imporre a Matilde come marito il proprio figlio Goffredo, detto “il Gobbo”. Il Gobbo non si limitava a portare la gobba ma pure il suo collo era deturpato da un gozzo. La bella Matilde abbozzò e nel pieno fiore dei propri ventitré anni acconsentì ad accogliere sul proprio seno tanta bruttezza. Dapprima la dimora nuziale fu fissata in Germania, ma morto il Barbuto (Goffredo padre), Matilde si risolse a tornare, rocambolescamente, a Canossa. Qui il Gobbo volle seguirla, ma solo per morire senza gloria in un cesso reale, trafitto da una spada nel deretano durante l’espletamento delle funzioni corporali. La leggenda vuole che la spada non fu rimossa e che Matilde non volle offrire al coniuge neppure una messa di suffragio. 
Matilde divenne in quella occasione Marchesa ed al tempo Contessa di Canossa e delle terre d’Italia a settentrione di Roma. Nell’anno domini 1076, nel corso della lotta per le investiture, accadde che, a causa di una marcata divergenza di opinioni, il Papa Gregorio VII scomunicasse l’Imperatore Enrico IV, che era anche cugino di Matilde. L’influenza dei Canossa sul papato era tale che era nel loro Castello che si tenevano i Concili per la nomina del Papa, una procedura coniata di fresco per porre un limite al potere dell’Imperatore tedesco. 
Non a caso fu proprio davanti al portale del Castello della trentenne Matilde, che Enrico IV dovette attendere inginocchiato per tre giorni e tre notti nel rigido clima invernale dell’Appennino Reggiano, prima di essere ricevuto da Gregorio per ottenerne il perdono.
Si dice che quelli medioevali fossero tempi bui, e quel che è certo è che non si poteva riporre la propria fiducia neanche nella parola di un Imperatore. Enrico IV fu infatti di ritorno, ma questa volta armato, nel 1085 e mentre Gregorio VII se la dava a gambe, l’esercito di Matilde fermò le sue truppe a Sorbara, nei pressi di Modena.
Passarono altri cinque anni ed Enrico IV prese per la terza volta la via del Brennero per portare i suoi armati nella pianura del Po, deciso a sottomettere definitivamente il papato. Si narra che il potente esercito fu attirato dalla pianura nell’infido Appennino e che la rossa Matilde stessa si ponesse a cavallo in armi al comando dei suoi fedeli che, a dispetto del tradimento dei mantovani, diedero non solo scacco agli uomini dell’ Imperatore, ma che approfittando delle risorse offertale dalle montagne, dispersero il potente esercito imperiale per sempre, guadagnandosi la sottomissione di Milano, Piacenza, Lodi e Cremona e il titolo di Regina d’Italia e Vicaria Papale per Matilde.

Dimenticato Goffredo il Gobbo, Matilde volle sposarsi nuovamente, di nuovo con un tedesco ma questa volta un bel diciannovenne: Guelfo Duca di Baviera. Matilde volle accogliere Guelfo a Canossa con il massimo sfarzo e decretò per il suo sposo ben 120 giorni di festa nuziale. Ma era destino che il matrimonio non dovesse durare che pochi giorni; si racconta che dopo esserglisi palesata nuda su una tavola nel proprio splendore per vincerne il forte riserbo, la focosa Matilde ebbe a cacciarlo dal regno con l’epiteto di Guelfo l’impotente.
La Regina Matilde morì a 69 anni di gotta senza lasciare eredi. Una sola figlia, Beatrice, le era morta in culla. 

Ora che siamo entrati nel vivo dell’atmosfera, ci si può godere in pieno il viaggio: 


Dal casello Terre di Canossa si seguono le indicazioni “Castello di Canossa”, che non mancano ad ogni rotonda. È una strada piatta e trafficata di campagna, senza nessuna attrattiva, e va considerata come trasferimento. 
Giunti a Ciano d’Enza ci si avvicina al fiume, che scorre alla nostra destra. Appena entrati in paese non ci si faccia sfuggire l’indicazione a sinistra, ancora una volta di “Castello di Canossa”. 
La strada (la SP 54) si inerpica ripida, e alcuni tornanti ci aprono una valle magica, bella come una fiaba. Alla nostra sinistra sorpassiamo un primo Castello, quello di Rossena, mentre di fronte a noi si srotola una vera “Terra di Mezzo”. Un’indicazione ancora a sinistra ci segnala il Castello di Matilde. Il suggerimento è quello di cercarlo con gli occhi: la vista ne vale la pena, mentre è forse inutile avvicinarsi troppo da vicino “a piedi” alle rovine rimaste. 

Dopo l’incontro ravvicinato con quello che resta delle rovine matildiche, dobbiamo compiere una scelta. 
Torniamo alla SP 54: possiamo percorrerla a ritroso fino a tornare a Ciano d’Enza, e da lì seguire di nuovo il fiume Enza, mantenendolo di nuovo alla nostra destra. La strada è sinuosa e veloce, con qualche scenario di fascino, ma si tratta comunque di una strada di traffico, specie nei giorni festivi. 
La seconda possibilità è invece quella di non tornare all’Enza, ma al contrario di continuare a percorrere la SP 54, inoltrandoci nelle colline, lungo stradine strette, tortuose e mal asfaltate, tutte curve. 


In entrambi i casi la destinazione è la medesima, vale a dire Castelnovo ne Monti. La magia della tappa è rappresentata dalla Pietra Bismantova, un’altipiano surreale, una pietra che si solleva in verticale dalla pianura, e perciò ben visibile già a distanza, con un effetto onirico. Non a caso la Pietra Bismantova è nientemeno che la location del Purgatorio dantesco. 
Vale certo la pena di raggiungerla lungo una breve salita, e di parcheggiare la moto. Nei giorni festivi la folla è assicurata, negli altri un avvicinamento ulteriore a piedi ha il suo fascino. 



Saziati gli occhi con tanto spettacolo, la tappa successiva è il passo della Scalucchia. Trovarlo è un’impresa, perché mancano le indicazioni lungo la strada, ed il passo è un segreto ben custodito. Addirittura la strada stessa del passo è una ragnatela di sentieri, che non sono mai riuscito a ripetere uguali. Ci si sposta verso il sud, sempre in Provincia di Reggio Emilia, lungo la SS 63 (Acquabona > Collagna > Valbona). Spero di non sbagliare dando per Valbona il punto di partenza per la strada dello Scalucchia. 
Quello che c’è di speciale in questa stradina selvaggia persa fra le colline è che il panorama che ci si ritrova ad ammirare ha delle forti suggestioni alpine. Non solo greggi di pecore, ma anche l’erba che danza alle onde del vento, uno spettacolo indimenticabile, nonostante un fondo stradale da paura. Meglio percorrerlo con una enduro stradale, ma noi lo abbiamo fatto anche con una BMW R e addirittura una Harley. 
Il passo ci porta dal versante reggiano a quello parmense, dove proseguiamo verso il passo del Lagastrello

Il Lagastrello riassume tutto il fascino dell’Appennino tosco-emiliano; non è veloce, ci sono millemila curve, ma è un divertimento, ed un must. 


Scesi di nuovo in valle, si aprono davanti a noi molteplici direzioni, a seconda del tempo a disposizione e della voglia. 
Per esempio ci si può dirigere verso il mare, seguendo per Aulla
Oppure si può cercare di chiudere il tragitto rivolgendoci verso Pontremoli, nel cuore della Lunigiana. Pontremoli è bellissima e vale senz’altro la sosta. Personalmente non manco mai la foto ricordo sotto la statua del Pinocchio, lo stesso che da bambino andando al mare con la famiglia stava a indicarci che la strada della Cisa era finita. 
Se è ancora ora di pranzo, a Pontremoli non dovremmo mancare i testaroli al pesto, e non posso esimermi dal consigliare la Trattoria della Norina, una leggenda, ed un posto del cuore, oltre che un balcone di fascino affacciato sul fiume Magra. 


Da Pontremoli poi risaliremo verso nord imboccando il passo del Brattello (per Borgo Val di Taro, confidenzialmente Borgotaro), oppure da quello della Cisa (per Fornovo > Varano de Melegari), per concludere degnamente una giornata magica ma non breve. 





- Terre di Canossa (una valle magica, bella come una fiaba) 
- Pietra Bismantova (surreale) 
- passo della Scalucchia (un passo dalle suggestioni alpine nel bel mezzo dell'Appennino Tosco-emiliano) 
- passo del Lagastrello 
- Pontremoli (chi dice Pontremoli dice Norina = testaroli al pesto)
- passo del Brattello (sotto un castagneto infinito)
- Varano de Melegari e rientro...  

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